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Afghanistan: la fine della Long War

Le guerre sono sempre inutili, diceva Gino Strada. È una posizione nobile, ma purtroppo contraddetta dalla storia: le guerre sono sempre crudeli, ma talvolta necessarie – basti pensare a come è nata l’Europa che conosciamo – e spesso capaci di trasformare il mondo, benché si possa discutere se questo sia davvero “utile”.

La guerra iniziata nell’ottobre del 2001 in Afghanistan non era forse necessaria, ma sembrò a molti giustificata dalla collusione tra il regime del mullah Omar e chi aveva organizzato gli attacchi terroristici dell’11 settembre. Se ne può discutere; è probabile che altre opzioni sarebbero state migliori, ma dopo vent’anni assomiglia ormai a un esercizio retorico. La strategia decisa dall’allora Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, ovvero cacciare i talebani senza impiegare truppe di terra statunitensi – a parte poche dozzine di operators delle forze speciali – aveva un senso, ed ebbe successo. Poi bisognava andarsene, e lasciare il paese agli afgani “amici” dell’Alleanza del Nord, in quel momento vittoriosi, sostenendoli economicamente e militarmente, senza interferire con la politica interna. Venne fatta una scelta diversa, e sbagliata: perché da allora mancarono sia la chiarezza sugli obiettivi strategici della missione – presto sdoppiata tra Enduring Freedom, la parte “cinetica” di caccia ai terroristi e agli insorti, e ISAF, voluta dalla NATO, limitata in teoria al peacekeeping – sia i mezzi adeguati per portarla a termine.

Di fronte alla progressiva ripresa dei talebani, nel 2010 gli USA tentarono una reazione militare (simile al surge attuato dal generale Petraeus in Iraq tra il 2007 e il 2008), ma con scarsa convinzione politica e nessun successo reale sul terreno. Nel giugno 2011 il presidente Obama annunciò che il 31 dicembre 2014 avrebbe segnato la conclusione delle missioni di combattimento e l’inizio del ritiro delle forze statunitensi, concedendo di fatto la vittoria al nemico: da quel giorno i talebani ebbero la certezza di dover solo attendere il momento opportuno per passare alla controffensiva. La mossa di Obama era finalizzata a responsabilizzare gli afgani “amici”, facendo loro intendere che nel giro di pochi anni avrebbero dovuto cavarsela da soli: i risultati sono sotto i nostri occhi.

Molti chiedono oggi «come sia stato possibile» che 300.000 uomini armati e addestrati per anni dall’Occidente si siano sbandati in pochi giorni di fronte all’avanzata di poche decine di migliaia di guerriglieri armati alla leggera – pick-up con mitragliatrici, AK-47, RPG.

Per vincere una guerra bisogna provare almeno a combatterla; per combatterla, bisogna essere disposti a morire.

Il fallimento dell’Occidente in Afghanistan è stato politico e morale, prima che militare: l’impossibilità di creare un esercito afgano dotato della volontà di lottare per il proprio paese nasce dalla percezione, condivisa da molti, che la parte migliore del paese fosse altrove. Un governo corrotto, diviso tra fazioni, incapace di garantire giustizia e sicurezza alla popolazione non potrà mai essere un buon motivo per rischiare la pelle contro uomini che affermano di lottare per grandi ideali – in questo caso, per Dio e la patria: agli americani dovrebbe suonare familiare – e sono disposti a sacrificare la vita in combattimento. Si può continuare a combattere per soldi: ma negli ultimi mesi, a quanto pare, erano finiti anche quelli.

I più gravi errori sono stati commessi subito dopo la vittoria sul campo dell’autunno 2001, quando l’Occidente ha scelto di appoggiarsi a una classe dirigente screditata, che mai avrebbe potuto conquistare il consenso della propria gente; il resto è venuto da sé. In guerra non vince sempre il più forte; o meglio, la forza non si misura solo col numero dei soldati, o il «peso» e la tecnologia delle armi. In guerra vince chi riesce a creare un equilibrio tra motivazioni, risorse, obiettivi; tra lo spazio e il tempo; tra i costi e i benefici della lotta. I talebani hanno vinto perché hanno condotto una paziente campagna di logoramento delle risorse morali e materiali del nemico, costretto a spendere cifre comunque enormi per risultati inconsistenti, visto che una «guerra tra la popolazione» si vince se si garantisce sicurezza alla gente, e non si può garantire la sicurezza di un paese come l’Afghanistan senza una presenza capillare sul territorio. Alla fine i talebani hanno costretto l’Occidente ad abbandonare la partita per manifesta inferiorità politica: le democrazie hanno bisogno di consenso per combattere, e la loro resistenza lo aveva cancellato. Il fastidio dell’elettorato americano convinse Obama a dichiarare l’inizio del ritiro delle truppe nel giugno del 2011; Trump ha proseguito nella stessa direzione; Biden, in maniera tragicamente dilettantesca, ha fatto solo l’ultimo passo lungo una strada sbagliata. E i talebani hanno vissuto il loro momento di gloria: i quattro giorni finali dell’offensiva di agosto saranno ricordati e studiati come un esempio perfetto di “guerriglia lampo”.

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