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Nei miei due ultimi romanzi ho introdotto la figura di un fascista e, implicitamente, il fascismo stesso. In questi romanzi, la relazione con la pazzia non riguarda direttamente la follia dell’idea fascista, ma piuttosto quella che il fascismo crea negli altri. In entrambi i libri la vittima di un fascista soccombe alla follia e viene perseguitata.

Joan Grice, la protagonista ebrea di The Wardrobe Mistress, pubblicato in Italia nel 2017 con il titolo La guardarobiera, scopre che l’uomo che per molti anni ha avuto accanto come marito, deceduto di recente, in passato era stato membro della British Union of Fascists di Sir Oswald Mosley, un’organizzazione di camicie nere che negli anni Trenta attirava notevoli consensi. La rivelazione del segreto del marito turba Joan fino a farla impazzire, e il suo crollo è segnato da un atto omicida. In Last Days in Cleaver Square, da poco pubblicato in Italia con il titolo La lampada del Diavolo, il narratore, un vecchio di nome Francis McNulty, veterano della guerra civile spagnola, comincia ad avere visioni del generale Francisco Franco nel suo giardino londinese.

Più tardi lo trova nel suo letto.

L’anno è il 1975, e Franco è in realtà a Madrid, in fin di vita. La sua apparente presenza in casa di McNulty risveglia nel vecchio i ricordi dei giorni trascorsi come autista di ambulanze in Spagna, e in particolare di un tradimento da lui commesso per il quale prova ancora un’intensa vergogna. Quando incontra a Madrid la figlia in luna di miele, è lo spirito di Franco che spinge McNulty a compiere un bizzarro atto di espiazione.

Il fatto che i fascisti ispirino nelle loro vittime terrore, orrore, panico, pazzia non dovrebbe sorprendere. Non ci si può nemmeno meravigliare che il fascismo sia in sé e per sé una follia. La domanda più interessante è la seguente:

Dove possiamo individuare, di preciso, la natura folle del fascismo, e come è possibile spiegare il fatto che essa giunga talvolta a infettare un’intera società, fino a rendere pazzo un popolo?

Sono figlio di uno psichiatra forense. Ho sentito spesso mio padre parlare del problema di definire, identificare e curare quello che allora si chiamava disturbo patologico. Spesso si è parlato di “follia senza delirio”, una condizione associata a “una condotta insolitamente aggressiva o gravemente irresponsabile… che richiede o è suscettibile di trattamento medico”. In virtù di tale definizione, il fascismo sembrerebbe manifestare un certo numero di sintomi associati a un disturbo psicopatico. Non c’è dubbio sul fatto che il fascista sia insolitamente aggressivo o vergognosamente irresponsabile. Al pari dello psicopatico, non si identifica con i sentimenti dei suoi simili, con l’umanità che condivide con loro. È freddo, senza empatia, estraneo a qualsiasi tipo di affinità con gli altri, tranne quelli che evidenziano le sue stesse convinzioni.

Tuttavia, sorge una spinosa questione giuridica. Se il fascista soffre di un disturbo psicopatico, come il suo comportamento suggerirebbe, dovrebbe di conseguenza essere sottoposto a un trattamento psichiatrico. E se si scopre che ha commesso un reato, dovrebbe essere considerato non colpevole a causa del suo disturbo e dell’incapacità di controllare le proprie azioni. Quando Adolf Eichmann, un alto dirigente nazista attivo nell’Europa orientale durante la seconda guerra mondiale, fu processato a Gerusalemme per crimini di guerra nel 1960, i suoi giudici si trovarono di fronte a un profondo dilemma. Infatti, se Eichmann era sano di mente, allora aveva la responsabilità legale dell’assassinio di milioni di ebrei. Ma perché un uomo dovrebbe voler uccidere milioni di ebrei? E senza mostrare alcun rimorso? È un comportamento patologico. È follia.

Quindi deve essere pazzo. Ma se è pazzo non possiamo impiccarlo, perché non è responsabile delle sue azioni. Hannah Arendt, nel suo libro sul processo, Eichmann in Jerusalem, A Report on the Banality of Evil, scrive: “Questa semplice verità creò un dilemma che i giudici non potevano né risolvere né eludere”.

Lo impiccarono comunque.

Più o meno nello medesimo periodo, psichiatri e legislatori britannici stavano affrontando esattamente la stessa questione riguardo al disturbo psicopatico, e la loro definizione trovò espressione legale in una legge parlamentare del 1959, che classificò il disturbo come una condizione psichiatrica trattabile. Ma se un’intera società, o gran parte di essa, abbraccia come suo capo, suo führer, un fascista impegnato non solo nella ghettizzazione, non solo nell’espulsione, ma nell’annientamento di tutti gli ebrei europei, questa stessa società deve essere considerata non colpevole in ragione della follia?

La questione appare di per sé assurda. La psichiatria, e la legislazione illuminata intesa a proteggere l’individuo malato di mente dall’essere punito per un comportamento che non può controllare, non è in grado di rispondere alla cosiddetta Questione Nazista. Dovremmo quindi considerare il ruolo della propaganda nella creazione di un pubblico favorevole ai deliri di un Hitler. Nel 1940 fu chiesto a George Orwell di recensire Mein Kampf per una rivista chiamata New English Weekly. Orwell sottolinea, e cito:

“… una cosa che colpisce è la rigidità della mente [di Hitler], il modo in cui la sua visione del mondo non si evolve. È la visione fissa di un monomaniaco”. Oppure, potremmo suggerire, di uno psicopatico incapace di riconoscere l’umanità di coloro per i quali prova un odio intenso e irrazionale. Più avanti nell’articolo Orwell scrive: “Vorrei mettere a verbale che non sono mai stato capace di disprezzare Hitler… il fatto è che in lui c’è qualcosa che affascina profondamente… è il volto di un uomo che soffre torti intollerabili… riproduce l’espressione di innumerevoli immagini del Cristo crocifisso… egli è il martire, la vittima. Prometeo incatenato alla roccia…”.

Orwell naturalmente scrive nel 1940, quando la piena portata della pazzia di Hitler, e della sua malvagità, non era ancora evidente al mondo. Prosegue poi spiegando ciò che piace di Hitler al suo popolo: “Il fascismo e il nazismo sono psicologicamente molto più solidi di qualsiasi concezione edonistica della vita… Hitler ha detto: ‘Vi offro lotta, pericolo e morte’, e di conseguenza un’intera nazione si getta ai suoi piedi. Poi ha affermato: ‘Meglio una fine con orrore che un orrore senza fine’”.

Orwell termina con il pensiero che, poiché gli inglesi stavano allora combattendo l’uomo che aveva coniato quest’ultima frase,

“non dovremmo sottovalutare il suo fascino emotivo”.

In qualche modo, ciò spiega in che modo la follia di Hitler si trasmise alla nazione tedesca. Tuttavia, non si può dubitare che fosse pazzo, né che abbia reso folli coloro che lo circondavano e coloro che lo ascoltavano. Come è noto da tempo, lo psicopatico può essere l’individuo più attraente nella stanza, ma ciò non lo rende meno pazzo.

Qual è dunque, in fin dei conti, il rapporto tra fascismo e follia? Sono indissolubilmente legati l’uno all’altra, dal momento che la follia alimenta l’idea politica e viceversa. Non si tratta di una semplice nozione teorica. Nella nostra società, attualmente sentiamo proporre con sempre maggior volume e frequenza idee fasciste, per esempio dai suprematisti bianchi, ed è lecito attenderci un ulteriore peggioramento. Se teniamo a mente che esse sono le voci di pazzi che urlano il loro risentimento e la loro rabbia, possiamo avere qualche speranza di comprenderle e persino, eventualmente, di trovare una risposta politica che possa deviare quella rabbia, come farebbe una grande diga di fronte a un fiume in piena.

Articolo di:

  • Nato a Londra. È l’autore di tre racconti brevi e dieci romanzi, tra cui il bestseller internazionale Asylum (Random House, 1996) che nel 2005 divenne un film con protagonisti Ian McKellen e Natasha Richardson), Trauma (Bloomsbury, 2008), The Wardrobe Mistress (Hutchinson, 2017) e più recentemente, Last Days in Cleaver Square (Hutchinson, 2021). I suoi lavori sono stati tradotti in numerose lingue e in Italia Follia ha venduto oltre mezzo millione di copie. Ha scritto la sceneggiatura del suo romanzo Spider, il cui film di David Cronenberg è stato premiato al Cannes Film Festival. È membro della Royal Society of Literature in Britain e gli è stata assegnata una laurea honoris causa dall’Università di Stirling.

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